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COME RISOLVERE I DEBITI CON LE BANCHE?

E’ possibile risolvere i debiti con le banche?

Hai avuto bisogno di soldi, forse non una ma più volte. Ti sei rivolto alla banca convinto di potere, in qualche modo, restituire ogni centesimo dei prestiti ottenuti. Ma qualcosa si è inceppato nel frattempo e sei finito in difficoltà: l’imprenditore ha sentito la crisi, il privato ha avuto delle spese inaspettate. I motivi possono essere diversi.

Il fatto è che devi risolvere i debiti con le banche, ma non sai come. Temi che da un momento all’altro ti arrivi un pignoramento. Che l’ufficiale giudiziario bussi alla tua porta con uno sfratto esecutivo. Che tutto quello che hai costruito con fatica si polverizzi in pochi secondi.

A tal proposito, una sentenza del tribunale di Busto Arsizio e una legge del 2012, nota come la Salva-suicidi, dicono che chi è onestamente in difficoltà e vorrebbe risolvere i debiti con le banche può essere aiutato.

Non si parla di azzerare il conto ma, piuttosto, di stringere un accordo, trovare un compromesso per pagare di meno utilizzando le risorse che si hanno a disposizione, senza dover cercare quelle impossibili da reperire.

 

Che cos’è il saldo e stralcio?

Uno dei modi per risolvere i debiti con le banche è quello di ricorrere al saldo e stralcio. Un metodo riconosciuto dalla legge Salva-suicidi, approvata nel 2012.

Questa legge consente al cittadino di recarsi in tribunale e di presentare una richiesta di saldo e stralcio del debito che, in parole tecniche, significa aderire a quello che si chiama il “piano del consumatore“. In questo modo il richiedente può vedersi ridurre il debito senza che il giudice senta nemmeno i creditori. Ciò, ovviamente, nel caso in cui il magistrato veda che ci siano i presupposti.

Va da sé che il cittadino può, in questo modo (garantendo di rispettare la decisione del giudice), risolvere i debiti con le banche perché dovrà pagare una cifra più bassa di quella pretesa all’inizio. E che, in fondo, le banche saranno contente di poter incassare qualcosa di fronte alla probabilità di non aver alcun ritorno o di dover avviare una noiosa procedura di esecuzione forzata del pagamento.

Il saldo e stralcio viene, di solito, eseguito in una soluzione unica, a meno che le parti si accordino per un pagamento a rate.

 

Risolvere i debiti verso un solo creditore

Mentre la legge contemplava questa possibilità per i debiti contratti con un insieme di creditori, i tribunali si portavano oltre e puntavano ad applicare la normativa ai casi in cui di creditori ce ne fosse soltanto uno.

Il primo passo lo ha dato il tribunale di Busto Arsizio (Varese) nei confronti della ormai estinta Equitalia, oggi sostituita dall’Agenzia delle Entrate Riscossione. Suo il provvedimento con cui sono stati dimezzati 8 mila euro di debito con il Fisco grazie al fatto che il contribuente ha proposto di vendere un suo immobile e di pagare l’Agenzia con il ricavato dell’operazione.

Passa poco più di un mese ed ecco che un altro tribunale, quello di Napoli, si muove nella stessa direzione. Questa volta, però, non con il Fisco come interlocutore ma con davanti una banca. In tale occasione il magistrato campano ha decretato che un consumatore in difficoltà (vera e documentata) ha il diritto di vedersi dimezzare un mutuo ipotecario, anche se l’istituto che ha erogato il finanziamento non è d’accordo. Oltretutto gli conviene essere favorevole a questa soluzione: evita alla banca ulteriori costi per procedere al pignoramento dell’immobile e alla vendita all’asta da cui non ricaverà una somma ingente.

 

Risolvere i debiti dell’imprenditore

Se sei un imprenditore, per risolvere i debiti con le banche puoi appellarti alla legge del 2015 grazie alla quale è possibile trovare un accordo con la banca o con l’intermediario finanziario per programmare un rientro del debito senza particolari traumi.

Per cercar di trovare un’intesa contro il sovraindebitamento (tecnicamente si chiama «ristrutturazione del debito»), occorre una relazione di un revisore contabile e la garanzia che l’accordo possa essere portato a termine, cioè che i creditori ricevano i soldi. Inoltre, l’esposizione del sistema bancario deve essere di almeno il 50% dell’insieme dei debiti dell’impresa.

Solo a quel punto l’imprenditore può proporre l’accordo. Nel caso in cui venga raggiunto ed il titolare dell’impresa abbia più creditori appartenenti a categorie diverse, il debitore può chiedere che gli effetti dell’intesa vengano estesi a chi non ha firmato l’accordo sempre che:

tutti siano stati informati delle trattative in corso ed invitati a partecipare al negoziato;

i crediti di chi ha firmato l’accordo rappresentino almeno il 75% del totale del debito.

Se qualche creditore non intende riconoscere l’accordo, ha 30 giorni per presentare opposizione.

L’intesa produrrà i suoi effetti nel momento in cui sarà stata omologata dal tribunale, previa verifica delle condizioni dell’accordo e del corretto svolgimento della procedura e delle trattative.

Fonte: Adico

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bail-in

Bail-in e prelievo forzoso, la lista delle banche più a rischio.

Il Cet1 è l’indicatore più importante da considerare.

A partire dal 1° gennaio 2016, l’eventuale crisi di una banca verrà risolta con il nuovo meccanismo detto “bail-in”: il salvataggio dell’istituto di credito, cioè, non avverrà più con soldi pubblici dello Stato e/o delle banche centrali (come è stato sino a oggi), bensì attraverso la riduzione del valore delle azioni e di alcuni crediti (come quelli dei correntisti che abbiano depositato più di 100mila euro) o la loro conversione in azioni, per assorbire le perdite e ricapitalizzare la banca in misura sufficiente a risolvere la crisi e a mantenere la fiducia del mercato. Si è parlato di ‘prelievo forzoso’, e certo il recente caso delle quattro banche salvate per decreto, anche se ancora al di fuori delle procedure legate al bail-in, ha suscitato non poche polemiche, e fatto intuire che il rischio aumenta all’aumentare dei problemi finanziari dei vari istituti di credito.

Non tutti i risparmiatori avranno tempo e competenze per leggere i bilanci della propria banca, ma qualche precauzione può essere presa da tutti. Per esempio, un indicatore divenuto importante per rilevare lo ‘stato di salute’ di un istituto bancario è il Common equity tier 1 (Cet1), indicatore che rapporta il patrimonio netto della banca (capitale sociale più riserve) ai rischi assunti, ovvero si misura il totale delle attività ponderate per il rischio.

Le norme europee prevedono come ‘pavimento minimo’ per le banche un Cet1 Ratio dell’8%, che equivale a dire che una banca può effettuare investimenti (finanziamenti, prestiti, mutui,investimenti su titoli ecc) ponderati per il rischio superiori a 12,5 volte il capitale proprio. Più questo indicatore è elevato, maggiore dovrebbe essere la solidità dell’istituto, ovvero la capacità di affrontare eventuali scenari negativi. In generale un livello sotto il 9% non è considerato sufficiente, e sotto l’8% è assolutamente a rischio.

Vediamo nella tabella seguente lo stato di salute delle principali banche operanti in Italia (dati da Il Fatto Quotidiano).

ISTITUTO BANCARIO
CET1 (%)
Banca Popolare di Vicenza 6,80
Veneto Banca 7,12
Banca Popolare di Sondrio 10,14
Unicredit Banca 10,53
Gruppo Banco Desio 10,60
Mediobanca 11,00
Banca Sella 11,13
Banca Popolare di Milano 11,35
Credito Valtellinese 11,40
Banca Popolare dell’Emilia Romagna 11,50
Deutsche Bank 11,50
Monte Dei Paschi di Siena 11,70
Credem 11,77
Banca Carige 12,20
Gruppo Bancario Banco Popolare 12,30
Che Banca! 12,45
Ubi Banca Popolare Commercio e Industria 12,90
Intesa San Paolo 12,40
Banca Generali 13,40
Banca Ifigest 14,625
Gruppo Banca Ifis 15,34
Unipol 17,60
Banca Mediolanum 18,50
Fineco 20,79

Fonte: Qui Finanza

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E’ Brexit: Sterlina in caduta libera, borse a picco. Piazza affari mai così male

Notte drammatica e venerdì nero per i mercati internazionali con la vittoria di Brexit che porterà la Gran Bretagna fuori dall’Unione europea.

In avvio a Milano solo il titolo Recordati riesce a fare prezzo e perde oltre il 9%, mentre tutti gli altri restano a lungo bloccati per l’eccesso di vendite. Con il passare di minuti iniziano le contrattazioni e il rosso a Piazza Affari si allarga fino all’11%: si tratta della maggiore perdita da quando è possibile ricostruirne a ritroso l’andamento, dal 1994. Dopo il crac di Lehman il Ftse Mib segnò un crollo dell’8,24% il 6 ottobre 2008, mentre l’11 settembre 2001 aveva perso il 7,57%.

A pagare lo scotto maggiore sono le banche che solo a fatica riescono a fare prezzo: quando Bpm apre il rosso teorico è del 35%, poi ritraccia, ma le perdite sono pesanti e a due cifre come per Unicredit e Intesa Sanpaolo. A essere in ginocchio è l’intero comparto creditizio europeo. Francoforte perde il 6,9% peggio di Londra (-3,9%), ma meglio di Parigi (-8,3%). Effetto Brexit anche su Wall Street che apre col Dow Jones che perde il 2,33% e il Nasdaq il 3,90%. In profondo rosso anche l’indice S&P500 che cede il 2,33%, la peggior apertura dal 1986.

In mattinata Tokyo ha perso il 7,92% archiviando la peggior seduta dall’incidente nucleare di Fukishima. Per evitare danni maggiori, il Giappone ha deciso l’applicazione del ‘circuit breaker’, il dispositivo che inibisce le funzioni di immissione e modifica degli ordini, limitando i ribassi troppo elevati. Un meccanismo che potrebbe essere utilizzato anche da Borsa italiana che sarebbe pronta a restringere la forchetta di oscillazione dei titoli, per contenere il flusso di vendite.
A terrorizzare gli analisti è anche il percorso travagliato che sancirà il divorzio tra Londra e Bruxelles perché serviranno almeno due anni di negoziati che alimenteranno solo le incertezze. “Brexit può essere la nuova Lehman” dice Vincenzo Longo, analista di Ig Markets. Gli addetti ai lavori si augurano un divorzio che minimizzi il danno economico a tutto quelli che subiranno l’impatto del Brexit. “La Gran Bretagna soffrirà ma sono sicuro che si focalizzerà ancora di più ora sulla competitività della sua economia nei confronti dell’Ue e del mondo in generale” dice Tom Enders, l’amministratore delegato del gruppo aeronautico europeo Airbus Group.

A soffrire sono soprattutto le valute con la sterlina che dopo un avvio iniziale trionfante sulla scia dei sondaggi (volata ai massimi dal 2015, sfiorando gli 1,50 dollari), è crollata nella notte man mano che arrivavano i dati del vantaggio del “leave” dalla Ue, segnando un calo del 5% sul dollaro e arrivando a sfiorare 1,33: un crollo che ha superato quello del 1985. Le fluttuazioni della sterlina andranno negli archivi come le più forti di sempre. La perdita nel giorno del referendum aveva già superato quella del “mercoledì nero” del 1992, quando la crisi valutaria spinse la Gran Bretagna fuori dal Sistema monetario europeo. Debole anche l’euro che segue in negativo l’uscita dall’Ue di Londra. La moneta unica scende sotto quota 1,10 (1,0984) e a 111,56 contro lo yen, altra moneta rifugio in questi momenti. Tempesta anche sui titoli di Stato: lo spread, la differenza di rendimento, tra Btp e Bund tedeschi si è ampliato fino a 185 punti base dalla chiusura a quota 130 punti per poi ritracciare a quota 150 con il decennale italiano che rende poco meno dell’1,5%, mentre il tasso del bund è piombato al minimo record di -0,17% per poi risalire a -0,15%. Immediato l’effetto sulle materie prime: mentre il petrolio è in calo e cede oltre il 6% a 47 dollari per il barile Wti e il Brent perde poco meno (il 5,95%) a 47,88 dollari, corre l’oro, considerato il bene rifugio per eccellenza. Le quotazioni del metallo giallo, forti da giorni, salgono del 7,8% ai massimi dal 2008.

A questo punto l’attenzione è tutta rivolta verso le banche centrali. Haruhiko Kuroda, numero uno della Boj, la banca giapponese, ha assicurato che lavorerà a stretto contatto con gli altri governatori centrali per stabilizzare i mercati. In particolare, i banchieri stanno pensando di utilizzare – come già accaduto durante la crisi del 2008 – un accordo di “currency swap” che permetterebbe alla banche centrali di rifornirsi di dollari presso la Federal Reserve mantenendo poi invariato il tasso di cambio al momento della chiusura dell’operazione: in questo modo l’oscillazione delle valute sarebbe limitata. Anche la Banca d’Inghilterra è intervenuta spiegando che farà “tutto il necessario per assicurare la stabilità dei mercati”.

Fonte: Adico

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BCE: Popolare di Vicenza ha rifilato titoli rischiosi a 58mila clienti ignari

L’indagine della vigilanza rivela che i dati di operai, pensionati e casalinghe sono stati modificati per sostenere gli aumenti di capitale.

Trasformare casalinghe, pensionati, operai o qualsiasi altro genere di risparmiatori completamente privi di conoscenza finanziaria in accaniti traders di Borsa, o in smaliziati gestori di hedge fund, è stato l’ultimo passatempo dei consigli di amministrazione delle banche alle prese con difficoltà patrimoniali. Banca Etruria, CariChieti, CariFerrara e Banca Marche sono stati tra i casi più clamorosi, ma a Vicenza hanno voluto strafare. Ad alzare il velo sul “così fan tutti” vicentino è stata l’ispezione della Banca centrale europea, condotta tra il 26 febbraio e il 3 luglio 2015 e conclusasi con una relazione di 103 pagine che non lascia scampo agli ex vertici della Banca. I profili di ben 58mila azionisti, tra vecchi e nuovi, non risultano in linea con le normative Mifid, la direttiva europea (Market in Financial Instruments directive) che, tra le altre cose, impone di classificare i clienti in modo adeguato per fornire loro servizi finanziari appropriati.

L’ex presidente Gianni Zonin e l’ex amministratore delegato Samuele Sorato, oggi indagati per aggiotaggio e ostacolo alle autorità di vigilanza, hanno portato con due aumenti di capitale i soci a 108mila con una crescita del 57% in soli due anni. Una seconda città nella città, cresciuta sull’inganno e con l’unico scopo di rafforzare lo zoppicante patrimonio della banca. “Gli aumenti di capitale del 2013 e del 2014 – si legge nel documento – sono stati portati a termine adottando un approccio non in linea con le normative Mifid, poiché la Bpvi non ha stilato il profilo di rischio completo dei clienti attraverso i test prescritti oppure li ha alterati a suo vantaggio”. Gli ispettori hanno calcolato che sono stati almeno 29mila i nuovi sottoscrittori di titoli coinvolti. Altri 29mila azionisti, invece, a cui è stato offerto il diritto di prelazione, non sarebbero stati assistiti correttamente dalla banca, ma semplicemente informati con una lettera che avrebbero dovuto rispedire firmata in filiale. Nove su dieci dei destinatari contattati non hanno mai risposto.
Serviva in effetti qualche magheggio per far comprare un titolo che nel giro di un paio di anni è passato da un valore di 62,5 a 0,1 euro. La Vicenza è una banca non quotata e dal 2011 il consiglio di amministrazione ha pagato professionisti definiti indipendenti per assegnare un valore alle azioni. Se ne è quasi sempre occupato Mauro Bini, professore della Bocconi esperto in valutazioni d’impresa, che ad aprile 2014 ha ribadito quel valore astronomico. L’ispezione della Bce, invece, non lascia scampo: “I titoli sono sempre stati sovrastimati come dimostra la costante e significativa differenza tra il valore dei titoli della Bpvi e delle altre popolari quotate, utilizzando medesimi modelli di valutazione”. Prendendo solo uno dei molti parametri utilizzati dagli ispettori, il “price to book value”, ovvero il rapporto tra il valore di mercato del titolo (nel caso della Bpvi, il prezzo fissato dai consulenti) e il valore di libro è risultato che il coefficiente della Vicenza (1,2) è quasi il doppio della media di quello delle popolari italiane quotate in Borsa (0,73).

Oltre alla fabbrica dei falsi profili, Zonin e i suoi manager hanno finanziato gli acquisti delle azioni e illuso i clienti con la possibilità di rivendere quei titoli alla banca. Ma tra gennaio 2013 e dicembre 2014, le richieste di riacquisto sono diventate insostenibili, tanto che la Vicenza si è trovata di fronte 15mila ordini dal valore complessivo di un miliardo di euro: a gennaio 2013 le richieste valevano solo 52,5 milioni di euro e ci volevano 28 giorni per evaderle. Alla fine del 2013 è stato calcolato che servivano 311 giorni. La banca non aveva mai segnalato nei prospetti informativi la possibilità di non essere in grado di garantire la liquidità sul titolo, comunicata solo a marzo del 2015 con una lettera.

E al danno si aggiunge la beffa, perché l’ispezione ha appurato che la banca, anche quando ha riacquistato, non ha rispettato l’ordine della priorità temporale: ovvero ha ricomprato i titoli non secondo un criterio oggettivo, ma come piaceva a lei. Tra gennaio 2014 e febbraio 2015, “almeno 200 ordini sono stati evasi con una priorità che non ha seguito la normale procedura per un controvalore di 21,8 milioni di euro”. Sono state scoperte anche alcune lettere in cui la banca garantisce ai più “fortunati” o il riacquisto di titoli pari al capitale investito o assicura un rendimento minimo o ancora un generico riacquisto. Le assicurazioni più impegnative riguardano 10 clienti per un controvalore di 38 milioni, mentre le altre si riferiscono a 52 clienti per un controvalore di 182,2 milioni.

di WALTER GALBIATI

fonte: repubblica.it

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