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Istat, i giovani del 2016: poco occupati, poco coinvolti. Sei su 10 vivono con i genitori, il 42% sogna un futuro all’estero

Il Rapporto Istat traccia  un ritratto dettagliato della situazione giovanile in Italia e della situazione di precarietà.

I grandi cambiamenti della Generazione della ricostruzione, l’impegno e le aspettative dei Baby boomers, le prime difficoltà della Generazione di transizione, lo smarrimento dei giovani Millennials, trincerati in casa con i genitori e all’inseguimento di un lavoro che non c’è, fino all’alienazione della Generazione delle Reti, sempre connessi, cosmopoliti, con lo sguardo ormai irrimediabilmente rivolto verso gli altri Paesi.

Il Rapporto Istat

Il Rapporto Istat di quest’anno coincide con il novantesimo compleanno dell’Istituto, e non resiste alla tentazione di tracciare un efficace ritratto, una narrativa per dati dell’evoluzione del Paese dal dopoguerra ai giorni nostri. Con un’istantanea del presente non molto entusiasmante: “L’Italia sta finalmente uscendo da una recessione lunga e profonda senza termini di paragone nella storia di cui l’Istat è stato testimone in questi 90 anni”, dice il presidente Giorgio Alleva, aggiungendo che adesso finalmente il Paese “sperimenta un primo, importante momento di crescita persistente, anche se a bassa intensità”. E con qualche proiezione futura, non molto confortante: “Le dinamiche demografiche comporteranno un miglioramento piuttosto modesto del grado di utilizzo dell’offerta di lavoro” e pertanto “nel 2025 il tasso di occupazione resterà dunque prossimo a quello del 2010, a meno che non intervengano politiche di sostegno alla domanda di beni e servizi e un ampliamento della base produttiva”, si legge nel rapporto.

In altre parole, la produzione industriale sta crescendo, si riprendono anche manifattura e costruzioni, l’occupazione aumenta, le politiche familiari di riduzioni dei consumi rallentano. Ma nella sostanza il Paese non va più avanti: l’occupazione cresce solo perché i cinquantenni rimangono al lavoro ben oltre i 60 per via delle riforme pensionistiche, mentre il tasso di occupazione dei giovani cala drammaticamente.

Sempre più trentenni rimangono in casa con i genitori, si formano meno famiglie, nascono meno bambini. In passato la laurea era un forte fattore di spinta e di miglioramento sociale, ma adesso neanche l’istruzione superiore mette al riparo i giovani dalla precarietà e dalla disoccupazione, o dalla sottoccupazione, della quale sono le vittime principali. Quello che davvero fa sempre più la differenza è nascere nella famiglia giusta, in Italia ma in fondo anche in Europa: c’è una correlazione sempre maggiore tra il livello professionale dei genitori, la proprietà della casa e la posizione dei figli.

Rimangono alcune chance, per i più volenterosi: nel 2015 così come nel 1991 continua ad avere alte possibilità di occupazione chi si laurea in ingegneria, materie scientifiche o del gruppo chimico-farmaceutico; il voto finale alto è quasi sempre un fattore di vantaggio, e lo è anche la partecipazione a programmi di mobilità studentesca all’estero, come l’Erasmus. Però bisogna fare molta fatica per emergere, e non stupisce che il 46,5% dei ragazzi stranieri che vivono in Italia sognino di vivere all’estero da grandi, un’aspirazione che condividono con i loro coetanei italiani (42,6%).

Il ricambio generazionale

Pochi giovani. Se in Italia si diventa anziani sempre più tardi, dal momento che gli uomini di 73 anni e le donne di 75 di oggi hanno la stessa speranza di vita di un sessantacinquenne del 1952, il numero di giovani si riduce sempre di più. Attualmente meno del 25% della popolazione italiana ha un’età compresa tra 0 e 24anni, una quota che si è dimezzata dal 1926 ad oggi. Si tratta di una delle percentuali più basse in Europa. Il 2015 è stato un anno record per il calo delle nascite, sono state 488.000, 15.000 in meno rispetto al 2015, con la fecondità che diminuisce per il quinto anno consecutivo, attestandosi a 1,35 figli per donna.

Sei giovani su dieci vivono con i genitori. Il 62,5% dei giovani tra i 18 e i 34 anni vive ancora con i genitori, con una forte differenza tra le donne (56,9%) e gli uomini (68%), ma soprattutto una consistente differenza con la media europea, che si attesta al 48,1%. Ma se si guarda ai più giovani le percentuali sono ancora maggiori: nel 2015 vive con la famiglia il 70,1% dei ragazzi di 25-29 anni e il 54,7% delle coetanee, vent’anni fa le percentuali erano del 62,8% e del 39,8%. Tutto viene spostato in avanti, a cominciare dal matrimonio, si sposta il primo figlio e anche l’età nella quale si diventa nonni. Non si tratta di pigrizia, però: i Millennials sperimentano in modo massiccio le difficoltà del mercato del lavoro, che taglia posizioni soprattutto tra i più giovani, non garantisce stabilità e penalizza le retribuzioni.

Il mercato del lavoro

Giovani, (carini?) e disoccupati. Il Rapporto Istat dedica al mercato del lavoro il capitolo 3, ma stavolta la chiave di lettura è “per generazione”. E non potrebbe essere altrimenti, visto che il problema dell’Italia non è tanto che l’occupazione si stia riprendendo lentamente, e che comunque il livello del 2008 non sia stato ancora recuperato, quanto il fatto che gli occupati crescano soprattutto nella fascia di età 50-64 anni (più 1,5% rispetto al 2014 e più 9,2% rispetto al 2008). E dunque non si tratta di un vero aumento, quanto di una maggiore permanenza, dovuta alle riforme previdenziali. Mentre il tasso di occupazione dei giovani rimane particolarmente basso, al 39,2% contro il 50,3% del 2008. Inoltre “il percorso più tradizionale, in cui alla fine degli studi segue un lavoro permanente, è stato via via sostituito dall’ingresso con lavori a termine. Neanche la laurea salvaguarda particolarmente i giovani, perché il tasso di occupazione di un laureato di 30-34 anni è passato dal 79,5% del 2005 all’attuale 73,7%. E infine tra i giovani il tasso dei sovraistruiti (in possesso di un titolo di studio superiore rispetto al lavoro che fanno) è triplo rispetto a quello degli adulti.

Fuga dalla politica, meglio i social. Negli anni la partecipazione politica è decisamente diminuita. Era molto alta per la generazione “della ricostruzione” e per quella successiva, mentre per le ultime due generazioni prevale la partecipazione sociale, che però per i più giovani diventa sempre di più “social”, legata al forte uso delle nuove tecnologie, marcato soprattutto per i figli di immigrati.

Eppure i giovani imprenditori sono più bravi. Peccato che i giovani siano tenuti così a margine nella società italiana, perché quando hanno l’opportunità dimostrano di valere molto. Per esempio nelle microimprese, che rappresentano oltre il 85% delle unità produttive italiane, le aziende guidate da imprenditori giovani hanno aumentato i posti di lavoro più che quelle guidate da imprenditori anziani.

La disuguaglianza sociale

Disuguaglianza in aumento, ascensore sociale bloccato. L’Italia ha avuto un incremento record della disuguaglianza, passata, secondo la misurazione dell’indice di Gini, dallo 0,40 del 1990 allo 0,51 del 2010. Le ragioni non sono così difficili da trovare, sono legate soprattutto agli squilibri del mercato del lavoro, che a loro volta dipendono moltissimo dalle condizioni di partenza. L’Italia è tra i Paesi dove è maggiore infatti il vantaggio degli individui con status di partenza “alto”, cioè che a 14 anni vivevano in una casa di proprietà e che avevano almeno un genitore laureato e con professione manageriale. Al contrario, ci sono sempre più minori a rischio di povertà perché i genitori sono disoccupati o hanno uno stipendio basso. Per cui per i minori l’incidenza della povertà relativa è salita dall’11,7% al 19% tra il 1997 e il 2014, mentre per gli anziani si è dimezzata nello stesso periodo, passando dal 16,1 al 9,8%.

Fonte: Adico

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Sempre meno sono i trentenni e sempre più sono le culle vuote. L'Italia sta perdendo una mamma su cinque perché prima si vuole essere autonomi.

Meno trentenni e più culle vuote. “Così l’Italia perde una mamma su cinque”

Hanno tra i 30 e i 34 anni, sono donne e sono sempre di meno. Nate a metà degli anni Ottanta, quando la popolazione in Italia già iniziava a crollare, sarebbero oggi, per età, le nuove “potenziali madri”. Numericamente però assai inferiori delle loro genitrici, e, viste le circostanze di vita atipiche e precarie, assai in difficoltà (insieme ai potenziali padri) nel progetto di mettere al mondo dei figli. Sorelle più grandi delle millennials, laureate ma in grande affanno sul lavoro, le trentenni di oggi sono protagoniste di quella che gli esperti chiamano la prossima e vicina “trappola demografica”. Nella quale, secondo una previsione del laboratorio di Statistica applicata dell’università Cattolica di Milano, l’Italia rischia di perdere una “potenziale madre” ogni cinque. E questo mentre i nati nel 2015 sono stati 478 mila, al di sotto dei 500 mila bambini l’anno considerati la soglia minima per sopravvivere al declino demografico. Perché non soltanto le donne tra i 30 e i 34 anni sono meno numerose: erano 2.263.843 nel 2005, sono 1.797.049 nel 2015 (un quinto in meno), ma a giudicare dalla tendenza attuale metteranno al mondo un solo figlio a testa, non di più e non tutte.

A meno di non invertire la tendenza. A meno di non riuscire a sostenere davvero la maternità. E la paternità. E il lavoro femminile, perché nonostante tutti gli sforzi l’occupazione delle donne in Italia è ancora al 46 per cento, e al Sud le senza lavoro sono, drammaticamente, l’80 per cento del mondo femminile. “Condivido la definizione di “trappola demografica””, dice Barbara Mapelli, docente di Pedagogia delle differenze all’università Bicocca, “perché una trappola è qualcosa in cui si finisce anche senza volerlo “. Le ragazze, in realtà, “i figli li vorrebbero, anche due o tre, ma nel nostro Paese è sempre più alta la distanza tra il desiderio di maternità e la possibilità di realizzarla”. Dietro questo sogno che spesso diventa rimpianto, non ci sono soltanto la precarietà, l’assenza di welfare, le aziende ostili alle gravidanze, la mancanza di congedi maschili, ma anche fattori culturali. “L’idea sempre più radicata nelle coppie è che al figlio si debba dare tutto. Altrimenti è meglio non farlo nascere. Le donne oggi vivono una contraddizione: da una parte la maternità è ostacolata da fattori oggettivi, dall’altra è enfatizzata all’estremo. Così, spesso, si finisce per rinunciare”.

Un quadro noto, eppure poco o nulla si è mosso. Lo sottolinea, con amarezza, Valeria Fedeli, vicepresidente del Senato, ex sindacalista con una conoscenza profonda dei nodi che bloccano la realizzazione della maternità (a due anni dalla nascita di un figlio una donna su quattro non è più occupata). E, per Fedeli, le parole chiave sono due: lavoro e padri. “Con il Jobs Act abbiamo provato a dare delle risposte, abbiamo ripristinato la legge contro le dimissioni in bianco. Ma è ancora troppo poco. Il cuore è nel lavoro delle donne: se non si investe sull’occupazione femminile, e sulla possibilità delle potenziali madri di “dividere” il carico della famiglia, i bambini continueranno ad essere pochissimi”.

Per diventare genitrici, chiarisce Fedeli, le ragazze vogliono essere prima di tutto autonome. “Ma la gravidanza è ancora vissuta dalle aziende come un costo insostenibile e, quindi, scoraggiata. Così per non restare disoccupate le ragazze rimandano”. E quando coraggiosamente un figlio lo mettono al mondo, e si trovano a dover conciliare la famiglia con la professione, vengono emarginate. “I ritmi del lavoro sono pensati al maschile: più ore dai all’azienda, più vieni premiato. Ma questo, se hai un bambino, non puoi più farlo”. E qui entrano in gioco mariti e compagni, per i quali Fedeli ha presentato una proposta di legge di congedo di paternità obbligatorio di 15 giorni. “Le esperienze europee ci dimostrano che se si condivide, le donne fanno i figli. E allora è da qui che si può cominciare “.

Ci sono però esperienze virtuose. Arianna Visentini fa parte di un team specializzato nella conciliazione tra maternità e lavoro. “Sono sempre di più le aziende che ci chiamano, di solito multinazionali. Ci occupiamo di gestire sia l’assenza della lavoratrice-madre sia il suo rientro. Durante la gravidanza l’aiutiamo a restare in contatto con l’azienda, al suo ritorno la sosteniamo nell’ottica dello smart-working, lavoro da casa e flessibilità. Abbiamo visto che nelle aziende che applicano queste buone pratiche crescono le maternità”. Dimostrazione dunque che la conciliazione è una realtà possibile.

Fonte: associazionedifesaconsumatori.it

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