Via le tasse sui brevetti, Bruxelles accusa l’Italia: “Così è paradiso fiscale per le multinazionali”

Mentre i Paesi europei convergono verso una tassazione più uniforme, l’Italia ha deciso di fare la “furba”.

I Panama papers hanno riaperto la ferita dei buchi neri fiscali, dei paradisi delle tasse che attirano persone o aziende, sottraendo cifre astronomiche ai Paesi dove gli evasori fanno davvero affari o dove hanno la testa. Una voragine che inghiotte migliaia di miliardi ogni anno e procura altrettanti danni alle casse erariali di molti Paesi europei. Tanto che i principali governi del Vecchio continente lottano da anni contro queste prassi, e da anni la Commissione e il Consiglio Ue stanno portando avanti con l’Ocse ambiziosi programmi di armonizzazione dei regimi fiscali, almeno in Europa, per chiudere questi buchi neri. Ma mentre i Paesi europei convergono verso una tassazione più uniforme, l’Italia ha deciso di fare la “furba”.

Premessa. I “patent box regime” sono sistemi fiscali agevolati per brevetti, marchi e software protetti da copyright. Per le multinazionali un capitolo talmente dirimente dei bilanci, che sono disposte a spostare le loro sedi, persino a fare acquisizioni nei Paesi dove si pagano meno tasse, per approfittare di eventuali sgravi fiscali. E’ stato il caso di Pfizer, il colosso farmaceutico del Viagra: quando tentò di conquistare la britannica Astra Zeneca, sembrò motivata soprattutto dalla tassa britannica sui “patent” del 10%.

Wolfgang Schäuble, ministro delle Finanze tedesco, ha criticato nel 2013 i regimi fiscali agevolati sui brevetti e sui marchi, sostenendo che i “patent box regime” “sono contro lo spirito europeo” e suggerendo di bandirli. Anche le istituzioni europee hanno riconosciuto che la concorrenza sleale scaturita dai differenti regimi fiscali sui brevetti è dannosa. E nel 2014 le ha dichiarato guerra.

La diversità di tassazione, sostiene la Commissione Ue, “è un problema politico” per ovvi motivi: se un Paese introduce un sistema fiscale agevolato sui brevetti e sui marchi, danneggia inevitabilmente tutti gli altri. Per riassumerne il punto di vista, che sta cercando anche di precipitare in impegni veri e leggi, la Commissione ritiene che “le imprese che beneficiano del mercato e generano profitti dovrebbero pagare le tasse sui profitti nell’Ue là dove hanno le loro attività”. Dislocare la proprietà intellettuale in un altro Paese rispetto a dove avvengono davvero ricerca e sviluppo, è considerata da Bruxelles ormai senza ombra di dubbio una forma di evasione fiscale. Sin dal 1997 esiste un gruppo che fa regolarmente rapporto a Bruxelles e ai capi di Stato e di governo, e che ha elaborato un Codice di condotta per la tassazione sulle imprese. A novembre del 2014, in coordinamento con l’Ocse, il gruppo ha deciso che i “patent regime” dei Paesi europei dovrebbero convergere su un regime fiscale più armonizzato per chiudere i “buchi” che consentono alle imprese e alle multinazionali di evadere il fisco spostandosi semplicemente da un Paese all’altro.

Dopo questa segnalazione importante, la Commissione ha preso a giugno del 2015 un impegno solenne a intervenire con misure vincolanti se entro dodici mesi i Paesi membri “non avranno adottato in modo determinato questo nuovo approccio”. Insomma, se tra un mese Bruxelles rileverà che qualche Paese non prenderà impegni per allinearsi agli altri, preparerà “misure legislative vincolanti”. Va ricordato che la lotta senza quartiere all’evasione fiscale viene strombazzata a ogni consesso internazionale, è da anni uno dei temi dei G7 e dei G20, e in prima linea contro la concorrenza sleale internazionale ci sono in particolare la Germania, la Francia e l’Italia.

Eppure, sui patent box l’Italia ha deciso di fare la “furba”. E’ lo stesso gruppo del Codice di condotta a segnalarlo, in un documento di giugno del 2015. Alla fine del 2014, proprio quando le istituzioni europee promettevano la stretta sui regimi fiscali agevolati, Roma ha preso la decisione incredibile di introdurne uno. Approfittando del periodo-ponte che sarà concesso fino al 2021 ai Paesi membri per adeguarsi all’armonizzazione, il governo Renzi, dopo anni di beato sonno, ha deciso di annullare le tasse sulla proprietà intellettuale, per attirare qui le aziende e le multinazionali in cerca di condizioni fiscali migliori. Il decreto è stato approvato l’anno scorso e il gruppo del Codice di condotta sottolinea che è “incompatibile” con la tentata convergenza su quei tipi di regimi fiscali. Mentre l’Europa intera cerca di andare in una direzione, Roma ha deciso di andare in quella opposta. Molto critico sull'”eccezione italiana” è Sven Giegold, europarlamentare dei Verdi, tra i più attenti e preparati sulle questioni economiche: “Il Patent box italiano è un altro esempio dell’ipocrisia dei Paesi Ue. Ufficialmente dichiarano la lotta all’evasione fiscale, dietro le quinte bloccano ogni progresso e creano anzi nuove scappatoie”. Giegold si augura che la Commissione tenga fede alle sue promesse di una stretta sui regimi agevolati: “Dobbiamo mettere fine al dumping fiscale, in Europa”. Il collega della Linke, Fabio De Masi, condanna l’atteggiamento “vergognoso” dell’Italia che ha deciso di togliere le tasse sui diritti intellettuali: “Fino al 2021, periodo di transizione sin troppo lungo, continueremo a distribuire regali alle multinazionali”. Non convince neanche l’argomento che l’Italia faccia bene a introdurre un regime fiscale del genere per mettersi finalmente in linea con altri Paesi che hanno fatto i furbi sino ad ora, attirando così qui investimenti in ricerca e sviluppo. Un paper del 2015 (Alstadstaeter, Barrios, Nicodeme, Skonieczna e Vezzani) suggerisce al contrario che la presenza di tali agevolazioni attira le multinazionali “soprattutto per motivi fiscali” e finisce “per danneggiare l’innovazione locale, perché disincentiva le aziende a fare ricerca al livello locale. Insomma, il Patent box non aumenta gli investimenti in ricerca e sviluppo”.

Fonte: La Repubblica

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