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L’EUROPA DICE “BASTA” AL DUAL QUALITY, PRODOTTI CON UGUALE MARCA E PACKAGING MA DI DIVERSA QUALITÀ

Nell’ultimo periodo molte aziende di food mettono in pratica il fenomeno del dual quality, ovvero la proposta di prodotti con uguale marca e packaging ma con ingredienti diversi e quindi di diversa qualità. L’Europa dice basta.

L’Unione Europea vuole mettere un punto alla situazione creatasi dalle aziende di food attraverso multe salate e regole più rigorose. Nell’ultimo periodo, infatti, si è sviluppato il fenomeno chiamato dual quality; molte aziende di food stanno proponendo prodotti in apparenza uguali per marca e packaging ma diversi negli ingredienti e quindi nella qualità. I Paesi dell’est Europa denunciano questo fatto ormai da molto tempo: diversi produttori di alimenti vendono nel loro mercato prodotti in apparenza assolutamente identici, ma che in realtà contengono quantità inferiori di carne o pesce, edulcoranti artificiali anziché di origine naturale; oppure le aziende che hanno eliminato gli ingredienti più discussi, come l’olio di palma, nei Paesi dove c’è un’opinione pubblica più attenta, non hanno fatto la stessa cosa in Stati dove la pressione dei consumatori è minore. L’iniziativa dell’Unione Europea fa parte del New Deal for Consumers che prevede, inoltre, anche l’introduzione di una class action europea. La Commissione ha proposto di modificare la direttiva 2005/29 sulle pratiche commerciali tra aziende e consumatori: lo scopo è quello di prevedere la vendita di prodotti proposti come uguali ma in realtà molto differenti per la loro composizione, e la proposta è quella di introdurre multe pari almeno al 4% del fatturato annuale, una volta sommati i fatturati dell’azienda negli stati coinvolti. I gruppi alimentari non sono, però, obbligati a proporre prodotti identici al 100% nei differenti mercati europei, e ciò rende molto difficile la valutazione del fenomeno. Devono essere prese in considerazione alcune variabili, come la disponibilità o la stagionalità delle materia prime o i gusti dei consumatori di uno specifico Paese. I produttori possono anche vendere lo stesso cibo in confezioni di diverso peso e volume; per stabilire o no la scorrettezza dell’azienda bisognerà quindi valutare caso per caso. Sarà fondamentale stabilire se il consumatore è stato messo nelle condizioni di fare una scelta consapevole e se gli sono stati forniti tutti gli strumenti per farlo.

Fonte: Adico

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ue giustizia sociale

EUROPA: CRESCE GIUSTIZIA SOCIALE, L’ITALIA AGLI ULTIMI POSTI

Secondo il rapporto 2017 stilato dall’Istituto Bertelsmann Stiftung, l’Europa è migliorata sotto il profilo della giustizia sociale. L’Italia scala però al 25esimo posto su 28, perdendo una posizione rispetto a un anno fa, a causa soprattutto dell’alta disoccupazione giovanile.

In Europa cresce non solo l’economia, ma anche la giustizia sociale, che sta per uguaglianza, partecipazione dei cittadini, accessibilità. Il divario Nord-Sud però resta e l’Italia si posiziona negli ultimi posti della classifica. È quanto emerge dal rapporto 2017 che sarà presentato oggi, giovedì 16, al Social Summit di Goteborg, stilato dall’Istituto Bertelsmann Stiftung.

Sui 28 Paesi dell’Ue, l’Italia è 25esima, perdendo una posizione rispetto a un anno fa e sono soprattutto i giovani “a risentire – si legge nel rapporto – di chiari svantaggi strutturali”. In cima alla classifica ci sono ancora una volta i Paesi scandinavi, al fondo dopo di noi Bulgaria, Romania e Grecia. L’indice della disuguaglianza sociale tiene conto di sei aree, salute, coesione sociale e non discriminazione, accesso al mercato del lavoro, educazione, povertà, equità intergenerazionale. 

Nell’Ue le opportunità di partecipazione dei cittadini alla vita sociale migliorano e ciò è dovuto principalmente alla ripresa del mercato dell’occupazione, cresciuto in 26 su 28 stati rispetto a un anno fa. Il tasso di disoccupazione dell’Ue è sceso all’8,7 per cento. Nel 2013, apice della lunga crisi sociale, era ancora all’11 per cento. Fanno meglio anche i Paesi più in difficoltà, ma i loro dati restano preoccupanti: in Grecia i giovani senza lavoro sono il 47,3% (nel 2013 erano il 58,3), la Spagna è passata dal 26,2% al 19,7.

Ma la ripresa va a due velocità, e nei Paesi in crisi del Sud, bambini e adolescenti sono a rischio povertà ed emarginazione. Si registrano miglioramenti anche nel rischio di povertà (23,4 la media Ue, 28,7 la media per l’Italia, che sale se consideriamo i bambini e i giovani il 33,5). E nell’opportunità di istruzione, con il calo dell’abbandono scolastico, anche se gli autori del rapporto si dicono preoccupati da stati come “Ungheria e Polonia dove i governi della destra populista esercitano una forte influenza sul sistema d’istruzione, annullando i successi precedenti”.

I progressi, in Italia, sono ancora troppo cauti. Il settore in cui si piazza meglio è la salute (19esima), ma in media l’aspettativa di vivere senza limitazioni e malattie si è ridotta a 62,7 anni, due in meno rispetto al 2006. E la sanità nel Sud Italia arranca con lunghe liste d’attesa e una qualità minore rispetto al Nord e al Centro.

Buoni alcuni risultati sul piano delle misure ambientali, con la percentuale di energia da fonti rinnovabili crescita dall’8,3% del 2006 al 17,5 (l’Italia è al 13° posto), il rovescio della medaglia è che abbiamo il maggior numero di auto procapite “anche per la scarsità del trasporto pubblico” e “l’inquinamento avrebbe bisogno di una strategia politica più forte”.

Fonte: LaStampa

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Lavoro: in Italia il record europeo degli scoraggiati

Secondo le statistiche di Eurostat, l’Italia ha il numero più alto di disoccupati e sfiduciati che hanno smesso di cercare occupazione.

Un “serbatoio” di lavoratori da 3,55 milioni di persone. Sono in gran parte “scoraggiati”, italiani tra i 15 e i 74 anni che non hanno fatto un tentativo di cercare un lavoro, o che – in minima parte – hanno cercato lavoro ma non si sono dichiarati immediatamente disponibili a svolgere mansioni. Secondo le statistiche ufficiali di Eurostat, nessuno come l’Italia registra un esercito tanto folto di persone che restano ai margini del mercato del lavoro, non indossando la casacca di occupati e neppure quella di persone in cerca di occupazione.

istat lavoro

Le cifre

I numeri sono stati pubblicati in settimana dall’ufficio statistico europeo e il grafico mostra chiaramente come l’Italia si distanzi dagli altri Paesi. Nel complesso dell’Unione, infatti, ci sono 11,4 milioni di lavoratori potenziali, un quarto dei quali risiede tra le Alpi e la Sicilia. In Germania, giusto per fare il raffronto con i primi della classe, i lavoratori potenziali sono solo un milione, il 2,4% della forza lavoro complessiva contro il 14% italiano. Il bacino si divide in due gruppi: chi è disponibile a lavorare, ma non lo cerca, e chi cerca ma non è immediatamente disponibile. Il primo sottogruppo è generalmente più ampio del secondo e questo avviene in maniera rilevante in Italia, a testimoniare una maggior incidenza di scoraggiati (senza dimenticare il ‘sommerso’). Per altro, si tratta di un esercito di persone che se si riversasse improvvisamente alla ricerca di lavoro, non trovando sbocchi, innalzerebbe sensibilmente i valori del tasso di disoccupazione, che sta lentamente scendendo.

Già altri studi, per esempio del Bruegel, indicavano come la crisi avesse esacerbato il problema tra i giovani: l’Italia vanta il poco gioioso primato dei Neet, ragazzi che non sono né al lavoro né agli studi. Eurostat ha invece quantificato che negli anni della crisi (2008-2015) sono cresciute, nel Vecchio continente, il numero di persone che non hanno cercato lavoro pur volendolo (+1,8 milioni), che aggiungono il già duro trend di crescita dei disoccupati (+6,1 milioni).

Il rapporto di Eurostat non si è limitato a indagare il fenomeno della forza lavoro potenziale, ma ha altresì registrato il numero di lavoratori part-time sotto-occupati, cioè che avrebbero volentieri rimpinguato il loro orario di lavoro. Gli europei a tempo parziale sono 44,7 milioni, due su dieci occupati, e di essi sono ben 10 milioni quelli che la statistica considera forzatamente in quella condizione: quasi un quarto (22,4%) di tutti i lavoratori a tempo parziale e il 4,6% del totale degli occupati. Il problema affligge in modo particolare le donne, che sono i due terzi dei sotto-occupati a tempo parziale. Almeno in questo caso, l’Italia non spicca per i suoi numeri: i sotto-occupati sono 748 mila, il 3,3% degli occupati.

Fonte: Repubblica.it

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