petizioni online e vendita di servizi

Così i siti di petizioni online fanno profitti con le firme degli attivisti

Chi aderisce a una campagna non spende nulla, ma le informazioni che rivela valgono un tesoro per molti siti specializzati: i segreti di un business.

Firmare una petizione online non costa nulla ma ogni firma è un’informazione sui nostri interessi, i temi che ci stanno a cuore. Sono dati sensibili con cui si possono fare profitti attraverso la pubblicità. Un po’ come per Facebook e Google, solo che in questo caso nessuno ne parla e nessuno si scandalizza.

Tra i siti di petizioni, il più grande è Change.org, presente in 196 Paesi e con 5,6 milioni di utenti solo in Italia. Negli anni ha promosso campagne importanti, come quelle per il reato di omicidio stradale e la legge sul “dopo di noi” per i genitori con figli disabili. Non tutti sanno, però, che Change.org non è un’organizzazione senza fini di lucro. Quello che vediamo sul sito fa pensare a una non profit ma si tratta di una B-corporation, un tipo di azienda che fa utili pur avendo un fine sociale. Con un’ambiguità di fondo: oltre all’uso del dominio “.org”, nato per distinguere le organizzazioni senza fini di lucro dalle aziende,Change.org invita gli utenti a fare delle “donazioni”. Queste non servono a sostenere chi si appoggia alla piattaforma, ma sono pagamenti per un vero e proprio servizio. «Più donerai, più persone vedranno questa campagna», recita l’invito: i soldi servono a promuovere la petizione mostrandola «a potenziali firmatari». Una volta si volantinava, ora si paga da 3 a 50 euro con carta di credito.

Il modello di business di Change.org è presto detto: «Offriamo un servizio di lead generation» spiega la responsabile italian, Elisa Finocchiaro. «Quando un utente firma una petizione gli mostriamo degli annunci a pagamento in cui si chiede ai firmatari di dare il proprio contatto a un’organizzazione». È l’utente a scegliere: «Noi non vendiamo il dato dell’utente ma lo spazio per l’inserzione». E soprattutto, non c’è nessun fine di tipo commerciale: «Lo scopo deve essere sempre quello del sociale». Almeno in Italia.

Sul sito della società, nella versione statunitense, vengono raccolti alcuni casi scuola per presentare il servizio di sponsorizzazione delle petizioni. Tra chi ne ha fatto uso non ci sono solo organizzazioni benefiche, ma anche politici e aziende. Tra queste il vettore Virgin America, che ha usato la piattaforma per ottenere due gate nell’aeroporto di Dallas-Love. L’azienda è riuscita a mobilitare 27 mila cittadini col fine dichiarato di evitare che lo scalo fosse controllato da un’unica compagnia aerea. Ma il ritorno economico è evidente.

Scorrendo le petizioni pubblicate in Italia, invece, si incontra qualche caso limite; dalla campagna di AssoBirra per ridurre le accise sugli alcolici, a quella per rimuovere il vincolo d’uso di un solo buono pasto al giorno, lanciata da un dipendente di un’azienda che sviluppa tecnologie per pagamenti elettronici.

Change.org è solo una delle realtà di questo mondo. Un addetto ai lavori, che chiede di restare anonimo, racconta che in Italia «ci sono altri siti che, senza farsi troppi scrupoli, vendono pacchetti di dati degli utenti per fini commerciali». Per farsi un’idea basta iscriversi e leggere bene i consensi informati al trattamento dei dati personali.

Tra le piattaforme che abbiamo provato c’è Firmiamo.it, che fa capo a una società londinese con un network di siti in Russia, Regno Unito, Francia, Spagna e Stati Uniti. I gestori invitano gli utenti a sostenere economicamente le attività con una donazione, ma per firmare una petizione si è obbligati ad autorizzare la cessione dei dati a «partner e soggetti terzi operanti nei settori servizi, editoriale, energia, telefonia, turistico, comunicazione, entertainment, finanziario, assicurativo, automobilistico, largo consumo». Tutto lecito, ma il sociale sfuma in lontananza.

È l’altra faccia dello «slacktivism», l’attivismo da tastiera che con un clic ci fa credere di aver fatto la differenza. A volte può essere così, ma quanti firmatari sanno che stanno finanziando un’azienda privata?

Attivismo da tastiera: quando il mondo (non) cambia con un clic

Contro lo sfruttamento dei minori o per ottenere la verità sulla morte di Giulio Regeni si può firmare dal divano di casa e ci vuole così poco tempo che qualcuno dubita che possa essere tanto semplice. Già, che impatto ha una petizione online? Stando a Change.org, sono più di 500 le campagne chiuse con successo. Sul sito è possibile consultare l’elenco completo: ce ne sono 380 ma la società assicura che è un problema di archiviazione di quelle più vecchie.

Non esiste un numero minimo di firme per vincere: «Le petizioni – spiega lo staff del sito – servono per segnalare al destinatario che c’è una base più o meno ampia di cittadini che hanno a cuore un tema». Abbiamo chiesto a Change.org i dati sul numero di firme raccolte in media dalle petizioni elencate nella sezione “Vittorie”. La risposta della società è che questo tipo di dato non è importante: quello che conta è il risultato. L’informazione, però, si può ottenere spulciando il sito: in media sono 40 mila le firme raccolte da una petizione che va a buon fine. Ma il numero nudo e crudo va contestualizzato: solo il 20 per cento delle petizioni raggiunge questa quota di firme, mentre il 37,8 non arriva neanche a mille sottoscrizioni. Guardando nello specifico i dati delle singole campagne vincenti, si scopre che ce ne sono alcune in cui i firmatari sono meno di dieci, fino al paradosso della petizione per chiedere la rimozione dei posteggi auto dal Vittoriale. Firme raccolte: quattro. Il record di sottoscrizioni è per la campagna «Giustizia per Cecil, il leone simbolo ucciso da un cacciatore di trofei in Zimbabwe!»: è stata firmata da oltre 1 milione e 300 mila utenti. Ma anche in questo caso il risultato è dubbio: gli attivisti hanno ottenuto l’inserimento, da parte degli Stati Uniti, di due sottospecie di leone in una lista di animali in via d’estinzione. Decisamente al di sotto delle richieste, anche perché la questione era già oggetto di valutazione da parte dell’agenzia americana che si occupa della tutela degli animali.

È difficile pensare che quattro firme abbiano avuto impatto, e anche più di un milione non sono una garanzia. Ma la narrazione della vittoria è galvanizzante, alimenta l’impressione che quel clic faccia la differenza. E dichiarare centinaia di successi è un incentivo per chi si appoggia alla piattaforma pagando per promuovere le proprie campagne.

Di Francesco Zaffarano

Fonte: La Stampa

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